Bello è quando la forma e il contenuto si fondono. Bello è quando il pensiero e il sentimento, la ragione e l’emozione occupano lo stesso spazio; la mente si fa creativa, la ragione immaginativa.
L’arte della vita richiede questa libertà: la libertà di cercare la bellezza, la verità; e d’interrogarla, affinché l’anima la conosca – e conosca se stessa. Quella di Virginia Woolf – l’arte – ha la sua spina dorsale in un feroce attaccamento all’idea, che spinge, tira, trascina, obbliga alla forma; la realtà è la forma, vale a dire la materia, la vita, l’esperienza. Ma è la vita a mancare, e a rendere tutto invisibile (o indicibile, nel caso di uno scrittore). E c’è come qualcosa che è, senza essere oggetto né tema. È il ritmo: la Woolf, nella sua lingua, colleziona parole che prendono senso quando nel discorso una voce viva le anima, parole che costituiscono nella realtà di una conversazione il lessico della presenza, ma che invece stanno nella pagina come in isolamento. Il suo non è un linguaggio comunicativo, è un linguaggio simbolico in cui le cose non sono tenute insieme grazie alla potenza della parola che leghi al senso, ma stanno raccolte nel suo silenzio, un linguaggio straordinario che toglie la parola al nostro comune modo di rappresentazione, “nell’ estrema oscurità delle relazioni umane. Non siamo tanto più espressivi così?”. È un silenzio interiore che ci rende liberi, esonerati da ogni relazione. Ed è in quella dimensione che si incontra l’indicibile di un suono che la lingua umana non potendolo registrare come espressione registra come ritmo. Nelle Onde lo viviamo pienamente il dolore della vita che manca, siamo presenti là dove la cosa ci manca. Virginia Woolf – lo dice nei Diari – pensa spesso di mancare alla vita, ma non perché non provi amore per la vita, o perché non senta l’emozione che chi ama la vita prova vivendo. A mancare in lei non è la facoltà del sentire, al contrario, dice “che tremenda capacità ho di sentire”. E ancora "C’è qualcosa, ne sento il ritmo, incessante sgorga, ricade, ritorna. Continua, non cessa. È una voce”. Ma quella voce, quella cosa che appare, non può tradurlaattraverso i segni messi a disposizione dal linguaggio quanto dal ritmo. E se è una forma – e non una frase – che tenta di costruire, si creerà nell’incontro tra la sensibilità e il suono. La forma verrà, se deve venire, e si crea da sola. L’Io è vuoto, così nel quadro, nel libro, nella vita non fa che trionfare l’assente. L’assenza è il cuore della parola di Virginia Woolf. Urgente. Perché la vita sempre ci manca. O noi le manchiamo. Siamo fatti di questo. Ma, sentiamo. Ci facciamo penetrare dalla cosa che manca.
L’arte della vita richiede questa libertà: la libertà di cercare la bellezza, la verità; e d’interrogarla, affinché l’anima la conosca – e conosca se stessa. Quella di Virginia Woolf – l’arte – ha la sua spina dorsale in un feroce attaccamento all’idea, che spinge, tira, trascina, obbliga alla forma; la realtà è la forma, vale a dire la materia, la vita, l’esperienza. Ma è la vita a mancare, e a rendere tutto invisibile (o indicibile, nel caso di uno scrittore). E c’è come qualcosa che è, senza essere oggetto né tema. È il ritmo: la Woolf, nella sua lingua, colleziona parole che prendono senso quando nel discorso una voce viva le anima, parole che costituiscono nella realtà di una conversazione il lessico della presenza, ma che invece stanno nella pagina come in isolamento. Il suo non è un linguaggio comunicativo, è un linguaggio simbolico in cui le cose non sono tenute insieme grazie alla potenza della parola che leghi al senso, ma stanno raccolte nel suo silenzio, un linguaggio straordinario che toglie la parola al nostro comune modo di rappresentazione, “nell’
“Per leggere questa poesia si dovrebbero avere migliaia di occhi, essere una di quelle lampade che si accendono a mezzanotte in mezzo all’Atlantico su lastre di acqua che corre, quando magari un ciuffo appena di alghe punge la superficie oppure d’improvviso le onde si spalancano e con una spallata viene a galla un mostro.[..] Il poeta che ha scritto questa pagina si è annullato in essa.”
Le Onde. Sono sei stati di coscienza. O voci. È una Virginia desiderosa di silenzio, di contatto con le cose, accettazione delle cose e di sé. Stanca di frasi e menzogne, fa LA domanda, “qual è l’espressione per la luna? E per l’amore? Con quale nome dobbiamo chiamare la morte? Non so. Voglio un piccolo lessico, parole di una sillaba come quelle dei bambini. Voglio un urlo, un grido. L’ho fatta finita con le espressioni. Lasciatemi sedere qui per sempre, con cose spoglie, questa tazza di caffè, questo coltello, questa forchetta, cose in se stesse, io che sono io.” E invoca ancora il silenzio, l’essere, l’accettazione delle cose senza bisogno di nominarle. Senza bisogno di nominarsi.È con il ritmo che ci si entra. È il suo movimento, è il Tempo di quel movimento, è l’urto, è tutto ciò che accade in un gesto. “Una veduta, un’emozione creano nella mente un’onda di ritmo molto prima che si abbiano le parole per riempirlo”.
Isabella De Ruvo
liberamente ispirato a The Waves - Virginia Woolf
scritto e diretto da Nina Viviana Cangialosi
con Barbara Bedrina
DOP Luca Ph La Vopa
"Credo anche che i nostri corpi siano in verità nudi. Siamo solo leggermente ricoperti da una stoffa abbottonata, sotto il selciato ci sono gusci di conchiglie, ossa e silenzio."
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